Consiglio di Stato, Sez. II, sent. del 18 maggio 2020, n. 3165.
Le regole di disciplina militare si applicano agli appartenenti alle Forze armate dal momento della loro incorporazione e fino a quello della cessazione dal servizio attivo, a condizione che gli interessati svolgano attività di servizio, si trovino in luoghi militari o comunque destinati al servizio, indossino l’uniforme ovvero si qualifichino, in relazione a compiti di servizio, come militari o si rivolgano ad altri militari in divisa o che si qualificano come tali; pertanto, una condotta commessa in presenza delle predette condizioni (nella specie, divulgazione di una nota di critica all’operato del Comandante generale dell’Arma senza il rispetto della prescritta via gerarchica dell’inoltro) non è sottratta alle regole di disciplina per il solo fatto di essere posta in essere nella veste di privato cittadino ovvero di rappresentante di un’associazione parasindacale, diversamente consentendosi un facile aggiramento delle regole stesse, con grave nocumento della funzionalità del sistema che anche dalla loro compattezza trae il proprio prestigio e la propria autorevolezza (Ha chiarito la Sezione che il riconoscimento dei diritti associativi direttamente rivenienti dall’art. 39 Cost. costituisce il punto di approdo di una condivisibile rivendicazione di categoria degli appartenenti alle Forze armate, pur con i calibrati equilibrismi imposti dalla loro richiamata peculiarità ordinamentale, che rende comunque anacronistico il riferimento alla ricercata essenza dell’attività svolta concretamente dall’Associazione).
Giova ricordare in punto di fatto come l’U.N.A.C., nata effettivamente nel 1998 come Associazione a scopo culturale e assistenziale, seguendo gli sviluppi della giurisprudenza, in primo luogo della Corte di giustizia dell’Unione europea in materia di diritti sindacali dei militari, nell’anno 2013 si è trasformata in Sindacato autonomo Carabinieri e Militari, con regolare statuto, notificato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, al Ministro della Difesa, al Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, al Comitato delle pari opportunità ed al Ministro dell’interno, procedendo altresì alla formazione dell’organico dirigenziale, con conseguente invio in via gerarchica delle prime deleghe sindacali.
Con la sentenza 13 giugno 2018, n. 120 della Corte costituzionale, di declaratoria dell’illegittimità costituzionale dell’art. 1475, comma 2, d.lgs. 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare), si è poi riconosciuto, traendo spunto da una vicenda che comunque vedeva coinvolta ridetta Associazione, il diritto di affiliazione ad associazioni sindacali da parte dei militari. Quanto detto in ragione del ritenuto contrasto della norma con l’art. 117, comma 1, Cost., in relazione agli artt. 11 e 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, come da ultimo interpretati dalle sentenze in data 2 ottobre 2014 della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, quinta sezione, nei casi “Matelly c. Francia” (ricorso n. 10609/10) e “Adefdromil c. Francia” (ricorso n. 32191/09) e in relazione all’art. 5, terzo periodo, della Carta sociale europea riveduta, firmata in Strasburgo in data 3 maggio 1996 e resa esecutiva in Italia con l. 9 febbraio 1999, n. 30 (per una ricostruzione della vicenda, v. da ultimo Cons. Stato, sez. I consultiva, n. 2571 del 25 settembre 2019). Ciò senza negare la possibilità che la legge adotti restrizioni per determinate categorie di dipendenti pubblici, inclusi gli appartenenti alle Forze armate: con il risultato che la previsione di condizioni e limiti alla libertà di associazione sindacale tra militari, facoltativa per i parametri internazionali, è invece doverosa nell’ordinamento nazionale, al punto da escludere la possibilità di un vuoto normativo, che sarebbe d’impedimento al riconoscimento dello stesso diritto di associazione sindacale. Da qui la ribadita legittimità del comma 1 dell’art. 1475 COM, il quale subordina la costituzione di associazioni e circoli tra militari al preventivo assenso del Ministro della Difesa, disposizione valida, a fortiori, per le associazioni sindacali, in quanto species di quel genus, peraltro di particolare rilevanza (sul punto cfr. il parere rilasciato dalla sez. II consultiva di questo Consiglio di Stato sul quesito avanzato dal Ministero della Difesa proprio in ordine all’applicazione dell’articolo 1475, comma 1, del Codice dell’ordinamento militare, alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 120 del 13 giugno 2018, relativamente al rilascio del preventivo assenso del Ministro della difesa per la costituzione di associazioni professionali tra militari a carattere sindacale, n. 2756 del 23 novembre 2018).
La necessità di attualizzare il contesto ordinamentale in materia di diritto associativo dei militari, non fa che rafforzare la ritenuta neutralità del ruolo di segretario dell’U.N.A.C. rivestito dal militare sanzionato nel caso di specie. Non a caso, nel ricostruire in fatto la vicenda, il T.A.R. afferma chiaramente che l’appartenenza all’Associazione culturale “anche secondo la resistente, non era, e non è, incompatibile col giuramento di fedeltà […] prestato”. Trattasi dunque non del punto di approdo di una scelta ermeneutica volta a legittimare la condotta associativa, ma di una riferita circostanza di fatto, incontestata tra le parti, posta “a contorno” dell’episodio accaduto, quale suo evidente contesto genetico. Ciò che rileva, cioè, è l’inoltro della lettera, non il fatto che la sua stesura sia avvenuta sotto l’egida dell’U.N.A.C.; argomentazione questa introdotta casomai dal militare in sede di difesa nel ricorso gerarchico, quasi a voler distinguere la propria condotta “ideativa” da quella “materiale” di invio agli organi di stampa, asseritamente avvenuto a cura di sedicenti uffici di comunicazione interni alla struttura associativa. E inopportunamente ripresa dalla difesa erariale nell’atto di appello, riproponendo inesistenti profili di illiceità dell’appartenenza associativa ex se, quand’anche ipotizzabili nel contesto storico sociale dell’epoca, tutt’affatto valutati dall’Amministrazione procedente, che non ne ha in alcun modo fatto oggetto di addebito.
Va escluso anche che la sigla associativa scrimini di per sé la condotta, dequotando le rimostranze mosse utilizzando la stessa, quale che ne sia stato il veicolo di trasmissione, prescindendo peraltro dai toni, seppur generici, del tutto irriguardosi, come riconosciuto dallo stesso giudice di prime cure, in una sorta di argomentazione a contrario di ciò che legittimamente si sarebbe potuto addebitare al militare e non si è invece stigmatizzato, dando rilievo ad aspetti ritenuti poi irrilevanti disciplinarmente (“essa [contestazione di addebito] avrebbe (pure) potuto porre l’accento sul contenuto della missiva "incriminata" (in cui il Comandante Generale dell’Arma viene accusato, la citazione è pressoché testuale, di non essere "super partes"; ma di avere a cuore solo la sorte di chi gli è vicino”).
Essa, cioè, non attrae alla sfera del “privato cittadino” il comportamento dei suoi iscritti, ammantando di “culturale” un rilievo mosso all’organizzazione del servizio da parte di chi quel determinato servizio è chiamato ad eseguire.
A tale riguardo l’art. 5, l. 11 luglio 1978, n. 382, applicabile ratione temporis al caso di specie, dopo avere ricordato (comma 3) che le regole di disciplina militare si applicano ai dipendenti “dal momento della incorporazione a quello della cessazione dal servizio attivo”, individua le “condizioni” in presenza delle quali il militare è da considerarsi tale. Esse sussistono quando gli interessati “a) svolgono attività di servizio; b) sono in luoghi militari o comunque destinati al servizio; c) indossano l’uniforme; d) si qualificano, in relazione a compiti di servizio, come militari o si rivolgono ad altri militari in divisa o che si qualificano come tali”. Ove così non fosse, ovvero ove si riconoscesse la possibilità di dismettere temporaneamente l’uniforme, nel contempo ammantandosi della veste del privato cittadino per il solo tramite di un sodalizio, per quanto idealisticamente apprezzabili ne siano le finalità, per pretermettere le regole intrinseche dell’ordinamento di appartenenza, non è chi non veda la facilità di aggiramento delle stesse, con grave nocumento della funzionalità del sistema che anche dalla loro compattezza trae il proprio prestigio e la propria autorevolezza. Nel caso di specie, dunque, non soltanto il ricorrente, dipendente al momento della stesura della lettera all’Amministrazione della difesa, si è qualificato con il grado militare, ma egli si è rivolto al Comandante Generale dell’Arma, per dolersi di modalità gestionali inerenti il servizio, come tali in alcun modo qualificabili “culturali”, ovvero “assistenziali”. Ciò a prescindere finanche dalla voluta risonanza mediatica che si è inteso far avere alla rimostranza, nel momento in cui la relazione ha assunto la veste di un comunicato stampa, chiunque sia stato incaricato dell’inoltro agli organi competenti. La violazione della circolare sui rapporti con la stampa, infatti, pure evocata dall’Amministrazione appellante, serve a maggiormente contestualizzare la condotta addebitata al militare, ma non è stata oggetto di specifico addebito, al pari della ricordata appartenenza associativa. Essa dunque, pur aggravando complessivamente il disvalore dell’illecito per come oggettivamente percepibile, se anche ha assunto un qualche rilievo nel procedimento disciplinare, ciò è da intendersi limitatamente alla conferma per tabulas che non si è seguita la via gerarchica nell’inoltro. Infine, l’asserita inutilità di qualsivoglia reclamo incanalato correttamente per quel tramite, in quanto destinato a finire comunque nel nulla (l’evocato fin de non recevoir, aulicamente richiamato in sentenza), oltre che inconferente, appare alla Sezione immotivatamente critico di una prassi neppure documentata, e contraddittoriamente finanche giustificata (stante che “giustamente” l’Amministrazione avrebbe opposto la diplomatica formula soprassessoria in non meglio precisati “casi analoghi”).